💤

Riposare è resistere, un manifesto per ricordarci che abbiamo diritto al sonno

Diversi libri recenti ci raccontano un mondo in cui la siesta diventa rivoluzionaria
Riposare è resistere un manifesto per ricordarci che abbiamo diritto al sonno

C'è una specie di reazione pavloviana che prende me e la maggior parte delle persone che mi vivono attorno: alla domanda “Come stai?” l'immancabile risposta è “Stanco” (varianti possibili: “Bene ma stanco”, o “Stanco ma bene”). Al di là di una certa tendenza al milanesismo imbruttito che ci spinge in qualche modo a elencare incessantemente i nostri impegni e le nostre fatiche, persino esagerando e vantandocene, è anche vero che la stanchezza sembra una dimensione trasversale, universale. Viviamo una stanchezza che è fisica e mentale assieme, una stanchezza però che è anche sociale e politica (quando ci sentiamo atterriti da tutti i problemi del mondo), talvolta anche una stanchezza morale, quasi filosofica. Il mondo ci sfinisce, ma soprattutto siamo noi che sfiniamo noi stessi sottoponendoci a ritmi incessanti, tappe forzate, connessioni interminabili.

A volte le conversazioni quotidiane sembrano diventare una gara e chi fa più e riposa meno: “Ah, la settimana scorsa ho preso 18 aerei, 20 treni e un taxi-boat”, “Beato te che dormi 6 ore a notte! Io 4 eh, massimo 5”, “Ho 134.569 mail ancora da leggere, ne leggo una e me ne arrivano 48”. L'essere impegnati, industriosi, affannati spesso è una posa funzionale a un certo tipo di stare al mondo (molto urbano, performante). Ma è anche una condizione oggettiva oltre che retorica, se consideriamo il fatto che viviamo in un mondo in cui le regole del lavoro sono le stesse di 70 anni fa, in cui i limiti tra vita privata e professionale si fanno sempre più labili, in cui i social diventano piattaforme di esibizione in cui dobbiamo mostrare il nostro ultimo hobby, il nostro ultimo viaggio, l'ennesimo biglietto del cinema, del teatro, il selfie coi risultati in palestra e così via. Fa fatica solo a scrivere, pensate cosa significa viverlo.

Siamo stanchi, c'è poco da fare. La soluzione sembrerebbe abbastanza intuitiva: andare a dormire, riposare. Magari fosse così semplice. Nel suo saggio Salvare il tempo, pubblicato in Italia da NR Edizioni nella traduzione di Raffaella Menichini, Jenny Oddell spiega in modo illuminante come il nostro tempo non sia semplicemente una dimensione oraria, bensì un termine economico: il tempo è denaro, come diceva il vecchio adagio, ma nel senso che noi oggigiorno paghiamo l'appartenenza al sistema capitalistico in cui siamo immerso con le nostre ore (di veglia). In altre parole, le nostre vite, anche nel tempo libero, sono diventate una serie di momenti da comprare, vendere e trattare in modo sempre più efficiente. Come possiamo permetterci di riposare se dobbiamo produrre, consumare, stare sui social ecc.?

Chi si occupa di informazione sa da anni ormai che il terreno su cui si consuma la sfida più grande è quello non solo sull'attenzione dei potenziali utenti, ma soprattutto sul loro tempo. Non si leggono i giornali o le notizie perché lo stesso tempo è dedicato a postare su Instagram, a giocare a Candy Crush, a trovare l'anima gemella su Tinder, a fare binge watching dell'ultima serie preferita. Per fare tutte queste cose ci serve sempre più tempo, e quindi non riposiamo, non dormiamo. Uno degli effetti più eclatanti di TikTok nella mia vita, per esempio, è quello di avermi rubato tantissime ore di sonno, per il suo effetto ipnotico e per la mia incapacità di staccarmene a un orario decente (ora però ho impostato la Limitazione di tempo sull'iPhone). In questo era angosciatamente profetico il saggio 24/7 di Jonathan Crary, pubblicato da Einaudi in Italia già nel 2015 (traduzione di Mario Vigiak). Basta citarne il sottotitolo: Il capitalismo all'assalto del sonno.

Tocca correre ai ripari, e quindi spuntano libri dai titoli altrettanto eloquenti, in senso però opposto: ultimo in ordine di tempo è Riposare è resistere di Tricia Hersey, pubblicato da poco da Blu Atlantide con la traduzione di Olimpia Ellero. È un libro edificante già dalla sua prima frase, che recita: “Spero che leggiate questo libro standovene sdraiati!”. L'autrice, che tra le altre cose è artista, poeta e teologa e si definisce come provieniente “da una lunga tradizione familiare di sfinimento”, è anche la fondatrice del Nap Ministry, centro culturale che propone il riposo e i periodi sabbatici come strumento di resistenza, cura di sé e comunità: come lo definisce lei, “un coperta calda che ci avvolge e ci riporta al nostro io più profondo”.

Il suo libro è un vero e proprio manifesto contro la “grind culture” che “ci rende tutti degli uomini-macchina, disposti e pronti a donare le proprie vite a un sistema capitalistico”. Prendendo ispirazione dagli antenati della sua cultura afroamericana ma anche dallo womanismo (particolare forma di femminismo nero e intersezionale), dall'afrofuturismo, da poete come Audre Lorde e da moltissime altre fonti diverse, Hersey propugna il movimento Rest Is Resistance. Tra i precetti, il principale è che il riposo è “una forma di resistenza perché ostacola e respinge il capitalismo e la supremazia bianca”. Ma è anche importante tenere a mente che “i nostri corpi sono un luogo di liberazione”. Questo perché concedersi del riposo significa ottenere “una porta d'accesso all'immaginazione, alla creatività e alla guarigione”. Sembra un'esagerazione, e a volte il saggio cade in un misticismo un po' da guru sopra le righe, ma il messaggio di base è forte e chiaro e tra le pagine vengono proposte anche pratiche meditative da applicare nel quotidiano (tipo “adagiatevi su una poltrona, sul letto, sul divano.. passate in rassegna il vostro copro e individuate qualsiasi forma di tensione… fate un respiro profondo”).

Se siamo consapevoli che riposare è una forma di resistenza al mondo capitalistico non possiamo nasconderci dietro al fatto che riposare è sempre più anche un privilegio. Ci sono persone che non possono riposare mai, che per la loro posizione marginale o svantaggiata nel mondo, sono incatenate a un iperlavoro incessante, a una veglia infinita, a uno sfinimento che diventa marchio di riprovazione sociale. Uno dei romanzi più brillanti degli ultimi anni, Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh (traduzione di Gioia Guerzoni, Feltrinelli), gioca in effetti su un paradosso che diventa al contempo protesta sociale e snobismo estremo: la protagonista ("giovane, magra, carina, da poco laureata alla Columbia", con un lavoro in una galleria d'arte) decide che la sua insoddisfazione per il mondo va risolta cercando di dormire per un anno il più possibile, praticamente sempre, a costo di intossicarsi di sonniferi (e di vivere una vita parallela non si capisce quanto immaginata).

Forse non dovremmo arrivare a ridurci così, a un sabbatico psichedelico e insensato, ma se possiamo iniziare a recuperare qualche ora del nostro benamato riposo, già sarebbe un primo passo. Buonanotte.